FATA MARTINA E L’ALBERO
DELL’AMICIZIA
Dicono che la vera Amicizia sia splendente come un cielo illuminato di stelle.
Questa è la storia di un’amicizia impossibile: quella tra un elfo che aveva
paura di amare, e una fatina che aveva paura di esprimere i propri desideri.
Pronti a venire con me?
Erano nati lo stesso giorno, d’estate. Uno in un campo di papaveri, circondato
da erbe selvatiche. E per questo, da allora, il Gran Consigliere ripeteva
borbottando che mai nessun elfo a Terra di Laggiù era riuscito ad avere un
carattere così testardo e fuori dalle regole.
E l’altra, tra le bocche di leone, cullata dal vento che, soffiando lieve,
aveva insegnato alla fatina sin da subito a danzare con la vita, assecondandone
il ritmo sussurrato per poi dominarla.
DisastroGiò, l’elfo dispettoso e fata Martina, si erano incontrati per caso, in
una giornata di un inverno freddo e pungente, sulla riva del Ruscello dei
Ricordi Perduti, e sin da subito era stato chiaro che nessuno dei due avrebbe
avuto vita facile finché avessero incrociato le loro strade sul loro cammino.
“Che ci fai tu qui?”
aveva domandato la fatina all’elfo, conosciuto in tutto il Regno delle fate per
la sua catastrofica capacità di combinar sempre guai a causa del suo mancato
rispetto delle regole.
“Non sono affari tuoi!”
aveva urlato per risposta l’altro, lanciando un sasso nel ruscello e facendole bagnare
tutte le ali.
Lei si era talmente indispettita, che l’aveva evitato per tutto il resto dell’inverno.
Poi, un giorno, era tornata al Ruscello dei Ricordi Perduti, e vi aveva trovato
l’elfo, ma prima che avesse potuto dir qualcosa si era accorta che lui
piangeva.
Allora, mossa a tenerezza, aveva messo da parte il disappunto che sentiva per
lui, e gli aveva chiesto cosa avesse.
“Che t’importa?”
gli aveva risposto lui.
Ma quando la fata aveva accennato ad andarsene, mormorando
“Sei sempre il solito, meriti di restare solo …”
DisastroGiò le aveva urlato:
“Aspetta... non andartene! Non lo ricordo più! Per questo sono venuto al
Ruscello. Non ricordo più il suo viso.”
“Non capisco. Il viso di chi?”
“Il viso di mia madre.”
aveva risposto il piccolo elfo sconsolato.
Allora la fatina si era intenerita, gli aveva preso la mano tra le sue, ed
erano rimasti così, in silenzio, a guardare l’acqua scorrere nel Ruscello, fino
a quando non era tramontato il sole.
Per la prima volta in vita sua DisastroGiò si era sentito compreso: non aveva
bisogno di parlare, lei aveva capito anche il suo silenzio.
Da allora erano diventati amici, anche se il fatto che fossero così diversi li
portava spesso a litigare.
Ogni tanto Fata Martina gli diceva:
“Sei la mia disperazione.
Non ti fidi di nessuno, segui
solo le tue regole.”
E lui le rispondeva:
“Non è vero, mi fido di te.”
Allora Fata Martina scuoteva la testa, scrollava le ali, e si chiedeva chi
glielo avesse fatto fare, quel pomeriggio al Ruscello, a dare una possibilità a
un elfo così testardo.
Passò il tempo, e i due amici si persero di vista, arrivò un
altro inverno, e poi, la primavera. E infine la Festa d’Estate, con la quale
Terra di Laggiù si preparava ad accogliere i nuovi nati.
C’era una volta … e forse c’è ancora … un luogo rubato al tempo dalla fantasia.
Dove il sogno si mescolava alla realtà.
E l’armonia regnava, strappata al caos dell’universo.
Terra di Laggiù si estendeva a Nord, fino alla foresta degli alberi urlanti,
fino ad arrivare alle cascate delle acque che non bagnavano mai; per arrivare
alla Vallata dei mughetti tintinnanti, che con la loro danza ondeggiavano in
preghiera fino a Dio.
Tutto era pronto per la Festa d’Estate: la Grande Quercia madre era stata
decorata con nastri cangianti, tessuti dai becchi operosi delle rondini
imperatrici. E il Picchio intagliatore aveva intarsiato le culle per le nuove
fate e piccoli elfi che sarebbero nati.
Ogni famiglia del Regno aveva portato in dono una lucciola, per illuminare il
cielo.
Fata Vaniglia, accompagnata dal Gran Consigliere, vestita in pompa magna aveva
aperto le danze sul Prato dei desideri, mentre una melodia dolcissima si
spandeva nell’aria, illuminandola a seconda delle note. Sotto la Grande Quercia,
Fata Madrina, sorvegliava le fatine
ormai prossime all’età adulta che si apprestavano a compiere il loro rito di
passaggio: avrebbero liberato le lucciole al tramonto. Ogni lucciola
rappresentava un desiderio, come augurio per i nuovi nati, e con quel rito le
fate avrebbero celebrato la vita.
Nascosto da tutti, DisastroGiò continuava a lanciar sassi nello stagno degli
arcobaleni, che a ogni lancio si increspava di mille sfumature cangianti.
Fu lì che lo trovò Fata Martina, quando, allontanatasi dalla festa, fu
incuriosita dalla strana luce proveniente dall’acqua.
“Dovevo
immaginarlo che dietro c’eri tu.”
borbottò la fatina.
“Perché
non sei con gli altri? Non ti va di danzare?”
incalzò burbera, ma contenta di aver ritrovato l’amico.
“Io non
le capisco queste strane usanze.”
rispose il piccolo elfo scrollando le spalle.
E poi, a voce bassa mormorò:
“E poi
non so danzare.”
E scappò nel Bosco degli alberi urlanti, senza darle il tempo di proferir parola.
“Non lo
capirò mai …”
borbottò Martina, osservando distratta una piccola lucciola che si era nascosta
nel cespuglio di uvamela, in un angolo dello stagno.
Intanto sul Prato dei desideri tutto era pronto per la cerimonia di passaggio
delle giovani fate: in file ordinate, reggevano ognuna un piccolo sacco formato
da fili d’erba intessuti con tela di ragno, che brillava di luce tremula, a
intermittenza.
Tramontava il sole, a Terra di Laggiù, e la luce lasciava il posto alla notte
baciando l’orizzonte, mentre l’aria si riempiva di sfumature tratteggiate tra
il giallo e il rosa, che sembravano dipinte
da un pittore invisibile. In un gioco di colori cangianti che sembravano le
infinite possibilità della vita.
Le fatine emozionate avevano cominciato ad aprire i loro piccoli sacchi, e in
pochi minuti, mentre imbruniva, l’aria fu invasa da piccole luci scintillanti,
che riempirono il cielo di magia.
Lontano, nel Prato di bocche di leone, e nel campo di papaveri, venivano al
mondo le piccole fate e i nuovi elfi.
DisastroGiò fu il primo ad accorgersi che qualcosa non andava.
“Scccc … non lo sentite?”
urlò arrampicandosi su un ramo della Grande Quercia.
“Cosa?”
risposero in coro le fate.
“Il silenzio!”
urlò l’elfo preoccupato, indicando l’orizzonte.
“Non s’ode più il vento far tintinnar le bocche di leone
cullando le nuove fate.
Non s’ode l’erba selvatica, cullar
in un abbraccio gli elfi
appena nati.”
Non ebbe il tempo di dir altro che, mentre il Gran Consigliere e Fata Madrina
allertavano le Sentinelle del Regno, e stormi di aquile imperiali sorvolavano
in perlustrazione tutta Terra di Laggiù, Fata Martina, si era già arrampicata
sul ramo più alto della Grande Quercia.
“Che ci fai lassù? Scendi!”
urlò DisastroGiò dal ramo più basso.
“Ma non capisci? Non è il silenzio il problema.
Non si vedono più! Sono sparite
…”
Il cielo s’era oscurato a Terra di Laggiù. Mentre una improvvisa tempesta aveva
cominciato a scuotere l’aria, e fulmini sferzavano l’aria terrorizzando tutti
gli abitanti.
“Scendi, Martina!”
continuava a urlare l’elfo da laggiù.
“Scendi, testona di una fata! O ti farai uccidere da un
fulmine!”
“Scendi, Martina!”
urlò Fata Vaniglia terrorizzata, mentre un fulmine colpì l’Albero senza nome,
che era la casa del Gran Consigliere.
Ci fu un parapiglia generale, e tutti correvano a destra e a manca, mentre nel
cielo, fulmini e saette, intersecandosi disegnavano arabeschi di luce.
Poi, il buio.
Dall’alto della Grande Quercia, a un tratto, una luce flebile, come un battito
d’ali, comparve dal nulla, e s’udì una vocina mormorare:
“Ehi, laggiù! Ci siete ancora?”
Dal Prato dei desideri si levò un borbottio: era DisastroGiò che rimuginava tra
sé e sé, tra la gioia e la paura, per aver finalmente sentito la voce
dell’amica.
“Cosa è successo? Ti decidi a scendere? Perché è tutto buio?”
urlò il piccolo elfo alla fatina lassù.
In quel mentre, dal cespuglio di uvamela, una piccola
lucciola fece capolino, e in quel momento Fata Martina capì.
“Le lucciole … Erano i nostri sogni.
Non abbiamo desiderato
abbastanza.
Non ne abbiamo avuto il coraggio.
Non abbiamo avuto il coraggio di vivere
la vita ogni giorno
come un giorno nuovo.
E così abbiamo perso la luce
delle stelle.
Ma abbiamo ancora una
possibilità:
abbiamo ancora un desiderio.
La vedi quella lucciola sul
cespuglio di uvamela?
Portamela quassù,
la farò brillare e con essa
illuminerò il cielo.”
“Non posso …”
borbottò il piccolo elfo, scrollando le spalle, arrabbiato.
“Non dovrò fare, come al solito, tutto io?”
rispose la fatina arrabbiata.
“Sei la mia disperazione, Disastro di un elfo.
Avrei dovuto lasciarti da solo al
Ruscello tanti anni fa.
Sei impossibile. Aiutami,
muoviti!”
urlò Fata Martina scuotendo sconsolata le ali.
“Non
posso, ho paura!”
ripeté l’elfo.
“E poi è buio, come farò ad arrampicarmi fin lassù?”
Allora Fata Martina si ricordò della polvere di fata con cui il Picchio
intagliatore stava dipingendo le culle per i nuovi nati, e …
“Usa la polvere di fata!”
urlò al piccolo elfo.
“Ti fidi di me?”
continuò la fatina.
“Insieme possiamo farcela.
Cattura la lucciola e imprigionala
in un nido di
rondine imperatrice.
Poi riempiti le tasche di polvere
di fata, finché puoi.
Con una foglia passala sui rami,
man mano che ti arrampichi.
E ti si illuminerà la strada.”
Così fece il piccolo elfo, e arrivò sulla cima della Grande Quercia.
Ma ancora non era finita.
“Eccoti la lucciola, prendila!”
urlò l’elfo alla fata, aprendole la mano e poggiandole delicatamente nel palmo
il piccolo insetto che continuava a emettere una luce fioca.
Ma, proprio nel momento in cui Fata Martina chiuse la mano, la lucciola
d’improvviso volò. E fu di nuovo il buio.
“Oh no!”
mormorò sconsolata la fatina,
“Era la nostra unica possibilità.
E ora come faremo senza il nostro
cielo luccicante di stelle?
Cosa illuminerà il nostro cammino,
se non avremo più la possibilità
di esprimere desideri?”
mormorò scoraggiata. E nel farlo, le cadde una lacrima che finì sulla mano
dell’elfo pauroso.
Accadde allora che DisastroGiò, l’elfo che aveva paura di amare, colui che non
si fidava mai di nessuno; conosciuto in tutta Terra di Laggiù per il suo
caratteraccio ribelle che metteva sempre se stesso prima di ciascuno, si
ricordò che la fatina era l’unica che lo avesse compreso e lo avesse amato
senza voler niente in cambio.
Allora si arrampicò su, fino al ramo più alto della Grande Quercia, e, usando la
foglia che si era portato dietro, cominciò a intingerla nella polvere di fata
che aveva nelle tasche, e a dipinger, una a una, le stelle nel cielo, che
d’improvviso sbrilluccicò di mille luci.
In quel momento, la lucciola che era volata, si poggiò sul
palmo della mano di Fata Martina, che guardando l’amico ancora sporco di
polvere di fata, gli sorrise grata.
“L’hai fatto …”
mormorò.
“Sei salito su nel cielo e hai dipinto le stelle, per me …”
“Vedi di non montarti la testa ora.”
rispose l’elfo ironico.
“L’ho fatto solo per non vederti piangere. Io odio il pianto.
E poi, dove la trovo, in tutto il
Regno,
una più testarda di me?”
“Questo è anche vero …”
rispose la fatina ridendo, e prese l’elfo per mano.
“Mi dici una cosa?”
domandò DisastroGiò all’amica.
“Cosa vuoi sapere?”
rispose la piccola godendosi il panorama mozzafiato di stelle.
“Il giorno che m’incontrasti al Ruscello dei Ricordi Perduti,
che cosa eri andata a cercare?”
“Il coraggio di continuare a sognare.”
mormorò la fatina, e mentre lo diceva, la lucciola poggiata sull’altra mano
cominciò a pulsare, e le stelle dipinte divennero vere.
Alla fine della Festa d’Estate, una fatina tenace e un elfo
vagabondo, seduti ai piedi della Grande Quercia si godevano un cielo che non
era mai stato così intenso di magia dalla notte dei tempi, a Terra di Laggiù.
Silenziosa, Fata Martina prese la mano dell’amico nella sua, e lui le disse,
piano:
“Questa storia della mano, quanto dura?
Perché io ho un caratteraccio da
mantenere,
e non vorrei rovinarmi la
reputazione.”
“Oh, sta
zitto, testone …”
rispose la fatina. E l’elfo nascose un sorriso, felice.
Un amico consola, un amico protegge, un amico condivide con te le cose belle e
le cose brutte, un amico capisce i tuoi silenzi, un amico pazienta, un amico è
qualcuno di cui puoi fidarti.
Un amico coglie gli spazi tra un battito e l’altro delle tue ali.
Un amico, sale su nel cielo e dipinge per te le stelle, se serve a salvarti.
Qui finisce la storia dell’amicizia (im)possibile tra un elfo che aveva paura
di amare, e una fatina che aveva paura di continuare a sognare.
E per voi, cos’è l’amicizia?
FINE
28 gennaio 2020
Donna Jacinta
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