lunedì 6 giugno 2022

IL CANTO DELLA SIRENA

Dicono che quando venne al mondo la terra tremò tutta e dal vulcano un fiume di fuoco squarciò la montagna e arrivò giù, fino alla valle, aprendosi un varco tra la vegetazione aspra e indomita come la gente che da secoli popolava quei luoghi.

Cosí, quel giorno, tra i guizzi della lava incandescente, fu vista nuotare una sirena dalla chioma splendente come il sole e dalla coda multicolore come la fiamma di una candela.

La videro disegnare arabeschi tra i flutti, risalendo il fiume di fuoco fino alla cima del vulcano.

E guardare verso il mare, come a cercare qualcosa.

Poi, una ciocca di capelli le si spostò, fino a mostrare un occhio solo.

Fu allora che la sirena pianse, e le lacrime trasportate dal vento, si posarono sulle pale di fichi d'india che crescevano selvaggi alle pendici del vulcano, e divennero splendidi frutti, dolcissimi ma protetti da una scorza di spine,che a toccarle bruciavano come lame incandescenti.

Un abitante dell'isola, temerario e curioso, s'arrampicò sulla guglia più alta del Castello, e urlò alla sirena: 

“Perché piangi, giovinetta?

Chi fu a causarti tanto dolore?”

La fanciulla si tuffò nel fiume di fuoco, e riemerse cingendo a sè un antico guerriero.

La sua armatura brillava come l'aurora, e in mano fendeva una spada che assorbiva la luce, nera più del nero.

Poi, con un canto antico, che parea una nenia che veniva da un mondo lontano, svelò il mistero:

“Io sono l'anima dell'isola tripunte.

Piango per il destino dei miei figli, sparsi per il mondo per un destino infame.

Come frutti dei fichidindia, i miei tesori sono dolci e succosi, ma per goderne bisogna prima eliminare le spine.

I miei figli sono guerrieri, condannati a lottare tutta la vita per difender l'isola.”

“Chi ti accecò?- incalzò l'uomo- nascesti con solo un occhio o te lo portarono via?”

“Fui resa orba durante una battaglia. I miei figli erano tanto pieni di rabbia, tanto disperati.

Che non si accorsero che a un certo punto lottavano tra loro, che facean scempio di ciò che li aveva generati.

Per questo piango.

Che non esiste sconfitta più grande, che quella contro se stessi.”

“Dimmi il tuo nome!” - urlò allora il nativo, prima ch'ella scomparisse per sempre tra i flutti.

“Mi chiamo Àgape.

Che nella tua lingua vuol dire "Amore".”

E poi sparí.

4 giugno 2022,

Valeria Ronsivalle 


Fiaba ispirata al quadro di Valeria Garraffo, “I colori della mia terra"

 

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venerdì 10 dicembre 2021

«Dottore, mi aggiusti, sono rotta...»


 “Si sieda signora. Per quale motivo è venuta qui allo studio?”

- “Dottore, mi aggiusti. Sono rotta.”

- “In che senso rotta? È caduta, ha avuto un incidente?”

- “No, nessun incidente (per quanto forse, aver amato le persone sbagliate possa essere considerato un incidente). Mi fa male la gamba.”

- “Bene, mi faccia vedere la risonanza magnetica, la aiuteremo.”

- “E mi si è inceppata la fiducia.

Da quando l'ultima volta l'avevo messa a disposizione di qualcuno che poi l'ha tradita, non funziona più.

Sono rotta, dottore mi aiuti.”

- “Quando è successo, se lo ricorda?”

- “Mi ero messa a nudo l'anima, sa, non accade molto facilmente, io non sono...una, come dire...facile.

Lo avevo fatto perché avrei messo la mia vita nelle mani di quella persona senza esitare, a occhi chiusi.

Lei crede negli incontri? Io sí.

E non mi riferisco solo a quelli romantici. Ma anche alle amicizie.

Quegli incontri in cui ti sembra di conoscere da sempre chi hai davanti. E parli come in una giornata di sole, come se foste un'unica cosa.

Quegli incontri in cui non esistono maschere, ma ci si mostra così come si è, senza paura di essere giudicati, di dover nascondere le proprie debolezze.”

- “Capisco, è accaduto anche a me, ma ancora non mi ha detto quando si è rotta.”

- “Lo ricordo perfettamente, perché stavo bevendo la tisana al tiglio e biancospino, sa quella che prendo ogni volta che voglio rilassarmi.

Quel giorno ho abbassato le difese, e ho creduto a chi mi diceva che ci sarebbe stato sempre.

Dovevo fare un salto. Non un triplo salto mortale carpiato, di quelli da acrobati, sa, non ho più l'età.

Un semplice salterello di quelli che ti fanno fare da adolescente in palestra, tipo la cavallina.”

- “E...?”

- “E la persona che mi aveva convinta a saltare, dicendomi che se fossi caduta mi avrebbe presa, quando son saltata e son scivolata, invece si è spostata. È stato allora che ho sentito «Crack!»”.

- “Si è fatta male alla gamba...”

- “No, mi si è inceppata la fiducia. Guardi, ho provato ad andare dall'elettrauto, mi ha detto che il relè del PuoiFidarti non lo fanno più, è fuori produzione. Se mi accontento mi fanno avere il ChiFaDaSèFaPerTre, ma io non lo voglio, mi sembra una fregatura.

Mentre mi mette a posto la gamba, non può impiantarmi un elettrodo che mi dia una scossa ogni volta che incontro una persona sbagliata?”

- “Farò quel che posso.”


10 dicembre 2021

Donna Jacinta

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venerdì 8 gennaio 2021

UNA FIABA PER VIOLETTA


Pioveva a dirotto, il giorno che la ritrovarono. Come se anche il bosco piangesse la sua morte: Violetta non era più.
Era nata in una notte afosa d'agosto. Quando il caldo ti toglie il respiro, e l'umidità ti entra nelle ossa, come se il tuo corpo fosse permeabile agli umori della terra.
La valle, quella notte, aveva tremato. E frotte di uccelli inquieti avevano volato intorno alla Grande Quercia, come un presagio di sventura.
"Che sciocchezza!"- aveva esclamato Fata Madrina dinanzi ai commenti preoccupati delle Fate più anziane.
"Siete solo delle vecchie paurose e credulone!" aveva urlato, prendendo in braccio la neonata e facendole accarezzare il visino dal primo, tiepido sole del mattino.
In quel momento dalla montagna l'Aquila sacra aveva levato il volo verso i Monti solitari, non accadeva da 300 anni, e questo era stato salutato come un prodigio di buon augurio, e le chiacchiere erano cessate.
Dobbiamo dire, in verità, che la fatina non aveva un carattere facile: quante volte, era stata sgridata perché si allontanava dalle compagne, e a cavallo del suo fido Nanù, un somarello albino che sapeva parlare, si avventurava per colli e valli fino ai confini del Regno, laggiù, dove le cime si facevano più fitte, e bisognava inerpicarsi cauti, col pericolo di cadere. Ma la voglia di vedere oltre era più forte di tutto, e nessun rimprovero o castigo era sufficiente a farla desistere se si metteva qualcosa in mente.
Così passarono gli anni, la fatina cresceva felice e indipendente, e tutti sembravano aver dimenticato ciò che era successo quando era nata.
La sua voglia innata di aiutare gli altri la rendeva amabile.
E persino Gnomo Brontolone, che borbottava senza sosta pure quando era felice, se arrivava Violetta per un attimo si azzittiva, e mormorando a voce flebile, o si sarebbe rovinato la reputazione, sussurrava al Gufo Indovino che non c’era creatura più angelica di quella fatina.
Poi, un giorno, in una delle sue scorribande ai limiti di Terra di Laggiù, ella sollevò gli occhi al cielo e lo vide: un enorme drago di fuoco, che battendo l’ali riempiva l’aria di scintille.
Spaventata, fuggì via, e correndo da Fata Vaniglia le chiese: “Cos’era che ho veduto oggi e che mi ha terrorizzata?”
In quel momento la Fata anziana sbiancò, e prendendo per le spalle la nipotina le disse:
“E fai bene a spaventarti. Oggi hai visto la creatura più pericolosa del Regno Magico: il Drago dell’Amor Perduto.
Sentimi bene signorina, adesso voglio che tu mi prometta che non torni mai più laggiù. Dimentica ciò che hai visto e giurami che stavolta ubbidirai.”
Violetta promise, ma in quel momento la vecchia Fata tremò: sapeva bene che erano cominciati i guai.
Passarono i mesi, poi fu più forte di lei, e un giorno in cui le fate più anziane erano impegnate per il Gran Consiglio, Violetta tornò ai confini del Regno, si arrampicò sulle cime, e vagò finché lo vide in un anfratto: stava tentando di curare un’ala, che continuava a perder un liquido scuro, che assomigliava a sangue ma era lava mista a fuoco.
Il drago la vide e ruggendo le intimò:
“Chi osa presentarsi al mio cospetto? Scappa subito via o ti pentirai della tua imprudenza.”
Ma Violetta non sembrava per nulla intimorita.
“Chi sei? E cosa ti sei fatto? Sei ferito? Voglio aiutarti!”
La creatura ruggì di nuovo, ma spiazzata dal coraggio della fata le rispose, con tono meno aggressivo:
"Ti ripeto, scappa finché sei in tempo. Io sono Argo. Una volta ero un mago, poi osai sfidare la Fata del Nord, e fui punito con la maledizione: chiunque si avvicini a me verrà pietrificato. Ora, vai, e non tornare mai più."
La fatina ci pensò sù un attimo e poi gli disse: "Che è successo a quell'ala? Come posso aiutarti? Starò lontana, te lo prometto."
- "Sali sul Monte della Rimembranza. Lì troverai l'erba del perdono. Prendimene una ciotola e lasciala sulla collina, mi servirà per far sanare la ferita."
Com'era bello, arrampicarsi sul Monte! Circondata da ruscelli, flora selvatica e animali bizzarri, Violetta arrivò sulla cima. La riconobbe subito, l'erba del perdono: aveva un aspetto etereo, pareva zucchero filato. e un odore di uvamela, dolciastro ma pungente.
Ne raccolse una ciotola, era morbida da toccare, come l'ovatta.
Quindi la pose su una pietra in cima alla collina dei desideri, e, lanciando un saluto al drago, che stupefatto la guardava da lontano, se ne tornò a casa.
Ora, dovete sapere, che a Terra di Laggiù pure le tortore riescono a parlare. Fu così, che due tortore impiccione, videro tornare Violetta dal sentiero proibito, e andarono a riferire tutto a Gnomo Brontolone. Che, tutto impettito e assai preoccupato, mandò un messaggio alla Fata Guardiana, recava il simbolo della Grotta Oscura, e la scritta: "Guai in arrivo."
Fu convocato di corsa il Gran Consiglio, annullata la Festa Annuale delle Fate debuttanti. Tutta la Valle entrò in fermento: la Sacra Legge era stata violata, nubi nere si presentavano all'orizzonte, e oscuri presagi di morte funestavano già le teste delle Fate della Congregazione dell'Ansia Ansiosa (di cui vi parlerò un'altra volta).
Violetta dovette presentarsi davanti alle Fate anziane, fu punita col divieto di uscire dalla Valle per tre anni, e andare ad aiutare Fata Morgana nella preparazione delle pozioni dell'oblio.
Uno stormo di aironi reali della Babulonia, capaci di creare uno scudo alzandosi in volo in schiera, fu posto ai confini del Regno.
E l'accesso al sentiero proibito fu nascosto con la Cupola delle illusioni, che mascherava la percezione del reale, e invece del sentiero mostrava una Montagna impenetrabile.
Passarono i mesi, poi gli anni, Violetta cresceva, e diventava un'esperta nelle pozioni. Divenne così brava che la Fata Fattucchiera, in poco tempo la volle come sua apprendista, perché si accorse che la fanciulla possedeva la dote che ad altri mancava: l'empatia.
Era quella che le permetteva di capire di cosa, chi si rivolgeva a loro, avesse bisogno. Era quella l'ingrediente segreto alle pozioni magiche, quello che rendeva possibile l'impossibile, pensabile ciò che sarebbe apparso impensabile.
Finché... finché un giorno una vedetta riportò al villaggio una grande notizia: il Drago era morto.
Il Consiglio decise di mandare una spedizione per verificare la notizia. Fu disattivata la Cupola delle illusioni, armata una brigata di elfi e fate, e così, la Compagnia del Drago partì alla ricerca di prove che avrebbero testimoniato che la profezia era stata finalmente sconfitta.
Violetta, che non aveva mai dimenticato il drago vittima della maledizione, si finse occupata nella preparazione di pozioni, ma in segreto si unì alla Compagnia, seguendoli da lontano.
Il viaggio fu inutile, del drago nessuna traccia, la Compagnia prese la via del ritorno: avrebbero portato al Consiglio la notizia che il mostro era scomparso, ma non ucciso, e che avrebbe potuto colpire ancora.
Mentre si addentrava nella selva, seguendo a distanza la Compagnia di rientro al villaggio, Violetta mise il piede male e cadde in un dirupo, svenuta.
Si risvegliò in una grotta illuminata da tre grandi sfere... ma erano uova! Uova di drago ad emanare quella luce!
Si toccò la testa, le faceva male. A una caviglia una corda, formata con radici di alberi intrecciate tra loro, le trasmetteva calore, se la spostava continuava a sentire dolore.
Una voce possente la fece sobbalzare: "Non toccarla. ti darà sollievo, cadendo ti sei fratturata la caviglia, così guarirai."
Violetta alzò gli occhi verso la profondità dell'antro. E in quel momento seppe che era lui: il Drago.
Fu chiaro da subito che Violetta dovesse star lontana da Argo, per non restare pietrificata. Nei mesi successivi la fatina condivise con la creatura tutto il suo mondo. E anche se restavano a distanza, pian piano si avvicinavano l'una all'altra nell'anima, e nonostante il Drago, di nascosto, somministrasse alla fatina la pozione della disillusione, l'amore vero fu più potente di qualunque magia, e si innamorò.
Una notte, mentre il drago dormiva, Violetta si addentrò nella grotta, e gli accarezzò il cuore.
Fu tale lo stupore del drago, che aprì la bocca, mormorando "Ti amo."
In quel momento si realizzò la profezia e Violetta si pietrificò.
Narrano che il ruggito di dolore del drago fu tale da essere sentito in tutti i confini dei regni, umani e non umani.
E che il pianto straziante della creatura giunse fino a Fata Madrina, nel Regno delle Fate, che seppe subito ciò che era successo, e perse per sempre la parola.
Il Drago poggiò l'amata ai piedi del bosco, e le pose in mano e sulle vesti dei fiori, poi volò nel regno dell'Amor Perduto e da allora nessuno lo vide mai più.
La Fata bambina fu trovata poche ore dopo, sotto uno scrosciante temporale, da una schiera di fate capitanata dalla Regina in persona, che ordinò di poggiarla ai piedi della Grande Quercia, su una lettiga composta dai fiori più preziosi del Regno, e di costruirle intorno una bara di cristallo, affinché fosse pianta da tutti gli abitanti dei Regni.
Narrano che quel giorno il mondo perse l'empatia.
E che ogni tanto, nelle notti buie e tempestose, qualcuno senta ancora il pianto possente di un drago, che invoca il suo perduto amore.
7 gennaio 2020
Valeria Ronsivalle
Donna Jacinta
Favola mia.
Quadro Di John Everett Millais - -wGU6cT4JixtPA at Google Cultural Institute, zoom level maximum Tate Images (http://www.tate-images.com/results.asp?image=N01506&wwwflag=3&imagepos=2), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=13455290


 

lunedì 30 novembre 2020

In viaggio verso me



Mi aggiro per le strade della mia città, sono qui da prima di Natale, dovevo rimanere per una vacanza, e son rimasta bloccata dalla pandemia.
Accarezzo le strade una a una, cercando di riappropriarmi di ricordi perduti. Di emozioni provate.
Di possibilità non sfruttate.
In un’altra vita... in una vita parallela. Dove tutto è possibile. Persino sentirsi parte di un tutto. Persino sentirsi finalmente in pace.
Persino sentirsi finalmente a casa.
Cammino per la strada principale: i negozi chiusi, in parte dal lockdown le danno un’aria spettrale. Ma per me questo è il posto più bello del mondo.
È qui che è il mio cuore. È qui che è la mia gente. Son qui le persone che amo.
È qui che ho lasciato la parte più vera e intima di me.
È qui che il mio spirito battagliero ha imparato a lottare. A emozionarsi per le piccole cose, a combattere per ciò in cui credo.
La piccola pasionaria dai capelli ricci, si aggira ancora per queste strade, per quei vicoli, furtiva prega sui banchi di quella chiesa.
Come fantasmi mi sfiorano i ricordi, in un’atmosfera a tratti surreale.
Passato, presente e futuro si azzuffano tra loro, mentre un nodo alla gola implacabile mi assale: è quasi finito il tempo, è quasi ora di ritornar su, a breve riapriranno i confini tra le regioni, e la pausa inaspettata finirà.
Accarezzo una a una le vie che non ho fatto in tempo a vivere, e nel frattempo son cambiate. Sfioro con la mia anima i volti dei miei amici e dei miei cari, rubo il calore che mi hanno dato in questi mesi, anche a distanza, ognuno nella sua casa.
Mi libro volando in aria con la fantasia, con la mia polvere di fata. Arrivo fino al Castello, alla Matrice, scivolo giù col pensiero dalla sua scalinata.
Sfioro Santa Barbara, poi Piazza Indipendenza, e infine la strada principale.
Non m’importa se qui non c’è ricchezza, se la povertà la fa da padrona: ho ricevuto più tra i muri di questa città fantasma, che nel posto in cui vivo, in cui i fantasmi sono coloro che ci abitano.
Un giorno mi abituerò, a sentirmi fuori posto, apolide, senza una meta.
Un giorno. Forse...
Ma non ora.
Oggi un urlo muto mi parte dalle viscere e straziante mi assale.
Poi mi affaccio al balcone e guardando l’Etna all’orizzonte ringrazio.
L’amara terra mia che tutto dà e tutto toglie. Ma quando ritorni ti riaccoglie come una madre che non dimentica.
E ti rimette al mondo con la sua forza, che avevi dimenticato di provare.
28 maggio 2020
Donna Jacinta


 

giovedì 26 novembre 2020


 

FATA MARTINA E L’ALBERO DELL’AMICIZIA

Dicono che la vera Amicizia sia splendente come un cielo illuminato di stelle. 

Questa è la storia di un’amicizia impossibile: quella tra un elfo che aveva paura di amare, e una fatina che aveva paura di esprimere i propri desideri.
Pronti a venire con me?

Erano nati lo stesso giorno, d’estate. Uno in un campo di papaveri, circondato da erbe selvatiche. E per questo, da allora, il Gran Consigliere ripeteva borbottando che mai nessun elfo a Terra di Laggiù era riuscito ad avere un carattere così testardo e fuori dalle regole.
E l’altra, tra le bocche di leone, cullata dal vento che, soffiando lieve, aveva insegnato alla fatina sin da subito a danzare con la vita, assecondandone il ritmo sussurrato per poi dominarla.
DisastroGiò, l’elfo dispettoso e fata Martina, si erano incontrati per caso, in una giornata di un inverno freddo e pungente, sulla riva del Ruscello dei Ricordi Perduti, e sin da subito era stato chiaro che nessuno dei due avrebbe avuto vita facile finché avessero incrociato le loro strade sul loro cammino.

        Che ci fai tu qui?
aveva domandato la fatina all’elfo, conosciuto in tutto il Regno delle fate per la sua catastrofica capacità di combinar sempre guai a causa del suo mancato rispetto delle regole.
       Non sono affari tuoi!
aveva urlato per risposta l’altro, lanciando un sasso nel ruscello e facendole bagnare tutte le ali.

Lei si era talmente indispettita, che l’aveva evitato per tutto il resto dell’inverno.
Poi, un giorno, era tornata al Ruscello dei Ricordi Perduti, e vi aveva trovato l’elfo, ma prima che avesse potuto dir qualcosa si era accorta che lui piangeva.
Allora, mossa a tenerezza, aveva messo da parte il disappunto che sentiva per lui, e gli aveva chiesto cosa avesse.
      Che t’importa?
gli aveva risposto lui.
Ma quando la fata aveva accennato ad andarsene, mormorando
      Sei sempre il solito, meriti di restare solo …
DisastroGiò le aveva urlato:
      Aspetta... non andartene! Non lo ricordo più! Per questo sono venuto al Ruscello. Non ricordo più il suo viso.
      Non capisco. Il viso di chi?
      Il viso di mia madre.
aveva risposto il piccolo elfo sconsolato.
Allora la fatina si era intenerita, gli aveva preso la mano tra le sue, ed erano rimasti così, in silenzio, a guardare l’acqua scorrere nel Ruscello, fino a quando non era tramontato il sole.
Per la prima volta in vita sua DisastroGiò si era sentito compreso: non aveva bisogno di parlare, lei aveva capito anche il suo silenzio.
Da allora erano diventati amici, anche se il fatto che fossero così diversi li portava spesso a litigare.
Ogni tanto Fata Martina gli diceva:
       Sei la mia disperazione.
        Non ti fidi di nessuno, segui solo le tue regole.

E lui le rispondeva:
        Non è vero, mi fido di te.
Allora Fata Martina scuoteva la testa, scrollava le ali, e si chiedeva chi glielo avesse fatto fare, quel pomeriggio al Ruscello, a dare una possibilità a un elfo così testardo.

Passò il tempo, e i due amici si persero di vista, arrivò un altro inverno, e poi, la primavera. E infine la Festa d’Estate, con la quale Terra di Laggiù si preparava ad accogliere i nuovi nati.

C’era una volta … e forse c’è ancora … un luogo rubato al tempo dalla fantasia. Dove il sogno si mescolava alla realtà.
E l’armonia regnava, strappata al caos dell’universo.
Terra di Laggiù si estendeva a Nord, fino alla foresta degli alberi urlanti, fino ad arrivare alle cascate delle acque che non bagnavano mai; per arrivare alla Vallata dei mughetti tintinnanti, che con la loro danza ondeggiavano in preghiera fino a Dio.

Tutto era pronto per la Festa d’Estate: la Grande Quercia madre era stata decorata con nastri cangianti, tessuti dai becchi operosi delle rondini imperatrici. E il Picchio intagliatore aveva intarsiato le culle per le nuove fate e piccoli elfi che sarebbero nati.
Ogni famiglia del Regno aveva portato in dono una lucciola, per illuminare il cielo.
Fata Vaniglia, accompagnata dal Gran Consigliere, vestita in pompa magna aveva aperto le danze sul Prato dei desideri, mentre una melodia dolcissima si spandeva nell’aria, illuminandola a seconda delle note. Sotto la Grande Quercia, Fata Madrina,  sorvegliava le fatine ormai prossime all’età adulta che si apprestavano a compiere il loro rito di passaggio: avrebbero liberato le lucciole al tramonto. Ogni lucciola rappresentava un desiderio, come augurio per i nuovi nati, e con quel rito le fate avrebbero celebrato la vita.

Nascosto da tutti, DisastroGiò continuava a lanciar sassi nello stagno degli arcobaleni, che a ogni lancio si increspava di mille sfumature cangianti.
Fu lì che lo trovò Fata Martina, quando, allontanatasi dalla festa, fu incuriosita dalla strana luce proveniente dall’acqua.
       Dovevo immaginarlo che dietro c’eri tu.
borbottò la fatina.  

       Perché non sei con gli altri? Non ti va di danzare?
incalzò burbera, ma contenta di aver ritrovato l’amico.
        Io non le capisco queste strane usanze.
rispose il piccolo elfo scrollando le spalle.
E poi, a voce bassa mormorò:
        E poi non so danzare.
E scappò nel Bosco degli alberi urlanti, senza darle il tempo di proferir parola.
       Non lo capirò mai …
borbottò Martina, osservando distratta una piccola lucciola che si era nascosta nel cespuglio di uvamela, in un angolo dello stagno.

Intanto sul Prato dei desideri tutto era pronto per la cerimonia di passaggio delle giovani fate: in file ordinate, reggevano ognuna un piccolo sacco formato da fili d’erba intessuti con tela di ragno, che brillava di luce tremula, a intermittenza.
Tramontava il sole, a Terra di Laggiù, e la luce lasciava il posto alla notte baciando l’orizzonte, mentre l’aria si riempiva di sfumature tratteggiate tra il giallo e il rosa, che sembravano dipinte
da un pittore invisibile. In un gioco di colori cangianti che sembravano le infinite possibilità della vita.
Le fatine emozionate avevano cominciato ad aprire i loro piccoli sacchi, e in pochi minuti, mentre imbruniva, l’aria fu invasa da piccole luci scintillanti, che riempirono il cielo di magia.
Lontano, nel Prato di bocche di leone, e nel campo di papaveri, venivano al mondo le piccole fate e i nuovi elfi.
DisastroGiò fu il primo ad accorgersi che qualcosa non andava.
       Scccc … non lo sentite?
urlò arrampicandosi su un ramo della Grande Quercia.
       Cosa?
risposero in coro le fate.
       Il silenzio!
urlò l’elfo preoccupato, indicando l’orizzonte.

       Non s’ode più il vento far tintinnar le bocche di leone
        cullando le nuove fate.
       Non s’ode l’erba selvatica, cullar in un abbraccio gli elfi
      appena nati.


Non ebbe il tempo di dir altro che, mentre il Gran Consigliere e Fata Madrina allertavano le Sentinelle del Regno, e stormi di aquile imperiali sorvolavano in perlustrazione tutta Terra di Laggiù, Fata Martina, si era già arrampicata sul ramo più alto della Grande Quercia.

        Che ci fai lassù? Scendi!
urlò DisastroGiò dal ramo più basso.
        Ma non capisci? Non è il silenzio il problema.
          Non si vedono più! Sono sparite …

Il cielo s’era oscurato a Terra di Laggiù. Mentre una improvvisa tempesta aveva cominciato a scuotere l’aria, e fulmini sferzavano l’aria terrorizzando tutti gli abitanti.
        Scendi, Martina!
continuava a urlare l’elfo da laggiù.
        Scendi, testona di una fata! O ti farai uccidere da un
          fulmine!

         Scendi, Martina!
urlò Fata Vaniglia terrorizzata, mentre un fulmine colpì l’Albero senza nome, che era la casa del Gran Consigliere.
Ci fu un parapiglia generale, e tutti correvano a destra e a manca, mentre nel cielo, fulmini e saette, intersecandosi disegnavano arabeschi di luce.
Poi, il buio.

Dall’alto della Grande Quercia, a un tratto, una luce flebile, come un battito d’ali, comparve dal nulla, e s’udì una vocina mormorare:
      Ehi, laggiù! Ci siete ancora?

Dal Prato dei desideri si levò un borbottio: era DisastroGiò che rimuginava tra sé e sé, tra la gioia e la paura, per aver finalmente sentito la voce dell’amica.     
       Cosa è successo? Ti decidi a scendere? Perché è tutto buio?
urlò il piccolo elfo alla fatina lassù.

In quel mentre, dal cespuglio di uvamela, una piccola lucciola fece capolino, e in quel momento Fata Martina capì.
       Le lucciole … Erano i nostri sogni.
        Non abbiamo desiderato abbastanza.
        Non ne abbiamo avuto il coraggio.
        Non abbiamo avuto il coraggio di vivere la vita ogni giorno
        come un giorno nuovo.
        E così abbiamo perso la luce delle stelle.
        Ma abbiamo ancora una possibilità:
        abbiamo ancora un desiderio.
        La vedi quella lucciola sul cespuglio di uvamela?
        Portamela quassù,
        la farò brillare e con essa illuminerò il cielo.


       Non posso …
borbottò il piccolo elfo, scrollando le spalle, arrabbiato.
       Non dovrò fare, come al solito, tutto io?
rispose la fatina arrabbiata.
       Sei la mia disperazione, Disastro di un elfo.
        Avrei dovuto lasciarti da solo al Ruscello tanti anni fa.
        Sei impossibile. Aiutami, muoviti!

urlò Fata Martina scuotendo sconsolata le ali.
       Non posso, ho paura!
ripeté l’elfo.
       E poi è buio, come farò ad arrampicarmi fin lassù?
Allora Fata Martina si ricordò della polvere di fata con cui il Picchio intagliatore stava dipingendo le culle per i nuovi nati, e …
       Usa la polvere di fata!
urlò al piccolo elfo.
       Ti fidi di me?
continuò la fatina.
       Insieme possiamo farcela.
        Cattura la lucciola e imprigionala in un nido di
        rondine imperatrice.
       Poi riempiti le tasche di polvere di fata, finché puoi.
       Con una foglia passala sui rami,
       man mano che ti arrampichi.
      E ti si illuminerà la strada.


Così fece il piccolo elfo, e arrivò sulla cima della Grande Quercia.
Ma ancora non era finita.
      Eccoti la lucciola, prendila!
urlò l’elfo alla fata, aprendole la mano e poggiandole delicatamente nel palmo il piccolo insetto che continuava a emettere una luce fioca.
Ma, proprio nel momento in cui Fata Martina chiuse la mano, la lucciola d’improvviso volò. E fu di nuovo il buio.
      Oh no!
mormorò sconsolata la fatina,
      Era la nostra unica possibilità.
        E ora come faremo senza il nostro cielo luccicante di stelle?

        Cosa illuminerà il nostro cammino,
        se non avremo più la possibilità di esprimere desideri?

mormorò scoraggiata. E nel farlo, le cadde una lacrima che finì sulla mano dell’elfo pauroso.
Accadde allora che DisastroGiò, l’elfo che aveva paura di amare, colui che non si fidava mai di nessuno; conosciuto in tutta Terra di Laggiù per il suo caratteraccio ribelle che metteva sempre se stesso prima di ciascuno, si ricordò che la fatina era l’unica che lo avesse compreso e lo avesse amato senza voler niente in cambio.

Allora si arrampicò su, fino al ramo più alto della Grande Quercia, e, usando la foglia che si era portato dietro, cominciò a intingerla nella polvere di fata che aveva nelle tasche, e a dipinger, una a una, le stelle nel cielo, che d’improvviso sbrilluccicò di mille luci.

In quel momento, la lucciola che era volata, si poggiò sul palmo della mano di Fata Martina, che guardando l’amico ancora sporco di polvere di fata, gli sorrise grata.
       L’hai fatto …
mormorò.
       Sei salito su nel cielo e hai dipinto le stelle, per me …
       Vedi di non montarti la testa ora.”
rispose l’elfo ironico.
       L’ho fatto solo per non vederti piangere. Io odio il pianto.
       E poi, dove la trovo, in tutto il Regno,
       una più testarda di me?

       Questo è anche vero …
rispose la fatina ridendo, e prese l’elfo per mano.
       Mi dici una cosa?
domandò DisastroGiò all’amica.
       Cosa vuoi sapere?
rispose la piccola godendosi il panorama mozzafiato di stelle.
        Il giorno che m’incontrasti al Ruscello dei Ricordi Perduti,
        che cosa eri andata a cercare?

        Il coraggio di continuare a sognare.
mormorò la fatina, e mentre lo diceva, la lucciola poggiata sull’altra mano cominciò a pulsare, e le stelle dipinte divennero vere.

Alla fine della Festa d’Estate, una fatina tenace e un elfo vagabondo, seduti ai piedi della Grande Quercia si godevano un cielo che non era mai stato così intenso di magia dalla notte dei tempi, a Terra di Laggiù.

Silenziosa, Fata Martina prese la mano dell’amico nella sua, e lui le disse, piano:
       Questa storia della mano, quanto dura?
         Perché io ho un caratteraccio da mantenere,
         e non vorrei rovinarmi la reputazione.

        Oh, sta zitto, testone …
rispose la fatina. E l’elfo nascose un sorriso, felice.

Un amico consola, un amico protegge, un amico condivide con te le cose belle e le cose brutte, un amico capisce i tuoi silenzi, un amico pazienta, un amico è qualcuno di cui puoi fidarti.
Un amico coglie gli spazi tra un battito e l’altro delle tue ali.
Un amico, sale su nel cielo e dipinge per te le stelle, se serve a salvarti.

Qui finisce la storia dell’amicizia (im)possibile tra un elfo che aveva paura di amare, e una fatina che aveva paura di continuare a sognare.
E per voi, cos’è l’amicizia?

                                                    
FINE

28 gennaio 2020
Donna Jacinta

#LeFiabeDiDonnaJacinta 
#LeStorieDiDonnaJacinta



mercoledì 28 ottobre 2020

QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO...


QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO 👄

Non ho mai amato truccarmi.
Sono, quel che si dice, donna di sostanza. (E a dire il vero pure di panza 🙄).
Non so neanche come ci si trucca, io, imbranata di natura, che non ho mai voluto tingere i miei capelli, diventati ormai argentati, per paura di non riconoscermi nell'aspetto.
Poi qualcosa ti scatta, così tua sorella ti regala una trousse, compri un po’ di ombretti e di matite, e cominci a giocare.
Mio figlio, pizzuto adolescente disincantato, guardandomi davanti allo specchio mi ha detto divertito: “Mà, è il tuo nuovo passatempo?”
No tesoro, è il mio nuovo modo di affrontare la vita.
Così la mattina, prima di portare il cane fuori, prendo le mie tavolozze di colori e comincio a giocare con le sfumature. Le mischio, le sfumo, cerco di applicare i tutorial ma sistematicamente non ci riesco. E rido, come una matta, ritorno bambina e mi rilasso, traccio linee con le matite colorate, sottolineo gli occhi, a volte dal miscuglio di colori nasce un caos e rido come una matta del mio essere naïf: sono proprio Miss Caxxo Confuso, pure nell'aspetto.
Allora prendo la provvidenziale mascherina e dico che grazie a Dio nessuno se ne accorgerà mai se sono una frana come truccatrice.
Ma si accorgeranno che sono diversa.
Perché quella maschera di colori è un’armatura che ogni donna si mette addosso per dire a se stessa:
Esisto.
Per dire agli altri:
(R)esisto.
Per dire al mondo intero:
(P)e(r)sisto.
Nel credere in me stessa, nel volermi esprimere, nell'andare avanti nonostante tutto, nel non dare più la possibilità a chi mi ha trattata con sufficienza di farmi male.
Perché io mi basto.
Mio figlio, perplesso, mi ha guardata, e dopo avermi chiesto: “Resterai tutto il giorno con quegli occhi scuri che sembri un panda?” ha aggiunto, serio: “Ma a che serve metterti una maschera per gli altri, mica cambi tu dentro!”
Amore mio, a parte che tu sei maschio, e come tale a certe cose non ci arriverai mai, quella che si mette mamma ogni mattina, non è una maschera. Sono i segnali che una donna si dipinge quando va in guerra. Quando si è lasciata tutto ciò che non importa dietro le spalle, e finalmente urla al mondo: Esprimo me stessa!
E se sembrerò un panda pazienza, sarà un panda che ride di se stessa 🙄🤷🏼‍♀️😂
E una risata, vale più di uno Xanax, non ti dico poi lasciarsi alle spalle chi ti ha ferito...
Donna Jacinta
25 ottobre 2020 #LeStorieDiDonnaJacinta #MissCaxxoConfusoStyle


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